BUENOS AIRES - L'Unità 25, a la Plata, in Argentina, è un carcere molto speciale dove detenuti, direttore e guardie sono tutti di confessione evangelica. E per scontare la pena qui, dove si cantano i salmi e le condizioni di vita sono migliori, c'è un boom della fede
Ogni mattina alle sei, in ginocchio, con gli occhi socchiusi e le mani al cielo, 270 lupi come per miracolo diventati agnelli, la maggior parte ragazzi fra i 22 e i 27 anni, cantano Gloria a Dio. È ancora buio e nel corridoio, dando le spalle alle finestre gelate, gli abitanti di questo antico convento di monache trasformato in prigione iniziano la giornata pregando: "L'alba era scura e io cercavo il viso di Dio". Il direttore del carcere ne approfitta per fare l'appello e controllare che durante la notte nessuno se la sia data a gambe. Aperto nel 2002 e ribattezzato "Cristo, l'unica speranza", l'Unità 25 di La Plata, 65 chilometri da Buenos Aires, non è una prigione qualsiasi. Qui tutti - condannati, secondini e direttore - sono di confessione evangelica. "Nel mondo non c'è un altro carcere come il nostro, glielo assicuro", dice visibilmente soddisfatto Daniel Tejeda, il Re e il Pastore, uomo grande e grosso che lavora per il servizio carcerario da 25 anni e che anche stamattina si aggira per i corridoi benedicendo a uno a uno i suoi delinquenti: "Il 95% delle persone che si trovano qui vengono dal centro di detenzione di Olmos", il più grande carcere argentino, a soli 200 metri dall'Unità 25. "Qualche anno fa", continua il direttore, "si pose il problema di creare un settore speciale per i fedeli: venivano sistematicamente violentati dagli altri prigionieri. Ed è per questo motivo che è nata l'Unità 25". L'idea deve essere piaciuta parecchio, stando al numero di conversioni registrate in soli tre anni: 1500. I benevoli, Tejeda in testa, dicono: "È tutto merito del nostro pastore, Juan Zucarelli". Zucarelli è un cristiano evangelico che ha scelto di lavorare in carcere "solo per avere il grande beneficio di poter predicare ai peccatori". Adora recitare i salmi ai detenuti, e vanta i successi conseguiti: "Oltre alla Bibbia, il prigioniero ha bisogno di qualcuno che gli si sieda davanti e lo ascolti. Ho visto assassini incalliti mettersi a piangere se solo gli fai gli auguri di buon compleanno", dice Zucarelli con un sorriso. Ma il dubbio che la fede sia stata abbracciata da così tante persone anche solo per un legittimo istinto di sopravvivenza potrebbe non essere del tutto infondato. Chi finisce in carcere sa bene che rischia davvero molto se non viene protetto da qualcuno. E da queste parti, in questi anni di boom per le chiese evangeliche, quel qualcuno non può che essere un pastore evangelico. In molti casi basta dichiararsi "convertiti" e "pentiti" per trovare l'appoggio giusto e chiedere il trasferimento all'Unità 25. Qui i prigionieri vengono pagati per i lavori che svolgono: riparare le macchine, curare l'orto, fabbricare guanti, ceramiche, scarpe. Alcuni riescono addirittura a finire la scuola: le elementari sono frequentate da ben 120 alunni. E quattro volte alla settimana possono ricevere amici e parenti. I detenuti, insomma, sanno che nell'Unità 25 il trattamento non è quello standard delle prigioni argentine. In cambio, due soli obblighi: pregare, e frequentare le lezioni di teologia biblica. Nel carcere evangelico i condannati tra loro si chiamano "fratelli" e nelle immagini che si tatuano sulle braccia c'è, quasi sempre, un Cristo. Nessuno domanda all'altro il motivo per cui sta scontando la pena. "Non badiamo al crimine, ma all'impegno che ognuno mette nell'ascoltare Dio. Non ci importa sapere se chi è qui ha ucciso venti persone o se abbia invece rubato una caramella. Quello che conta, per me, è l'impegno spirituale. E su quello, in questo carcere, non c'è finzione che tenga", spiega Tejeda. Sembrerebbe vero.
José Córdoba, un ventinovenne condannato all'ergastolo, è un po' il capoccia tra i suoi compagni di prigione, anche se il direttore continua a dire che qui "l'unico capo è Dio". Soprannominato "El Tucu" perché nato nella provincia di Tucumán, José aveva diciassette anni quando, nel corso di una rapina, ci scappò il morto. Secondo la sua versione a sparare fu il suo compagno. Ma ormai questi sono dettagli: "Prima ero un seguace del diavolo. Adesso sono un seguace di Dio", taglia corto con fare sicuro. Una cicatrice gli solca la guancia sinistra, a ricordo del giorno in cui venne sfregiato: "Fu durante uno scontro con un altro prigioniero, quando ero ancora a Olmos. Quello mi colpì con un ferro, e io risposi con una pugnalata dritta nello stomaco. Poi gli ho tagliato un orecchio". Quindi Córdoba attacca a raccontare rapito la sua conversione, che non esita a definire "un miracolo": "A quell'epoca avevo più desiderio di morire che di vivere. Ero a Olmos e ascoltavo i fratelli evangelici che se ne stavano lì a piangere e a cantare. Credevo fossero tutti pazzi. Fino al giorno in cui sono stato chiamato da un pastore che mi ha parlato di Cristo. Solo allora ho capito che c'era un Dio che poteva salvarmi", dice il giovane che prima di entrare nella prigione di Olmos era già stato "ospite" di altri cinque istituti di pena. Fatto sta che dopo otto anni passati a Olmos, Córdoba è stato trasferito all'Unità 25: "La giustizia umana per me ha chiesto l'ergastolo, ma so che Dio mi aiuterà". Per il momento ad aiutarlo ci pensa il direttore: Córdoba ha una figlia di undici anni e un figlio di due, e in sei anni ha visto sua madre solo una volta. Tejeda l'ha aiutato a pagare il biglietto per farli arrivare tutti e tre fin qui da Tucumán.
ll carcere ha due piani. In ogni corridoio un cartello chiarisce che non si può partecipare alla messa mattutina in canottiera, e che le magliette delle squadre di calcio - molto di moda da queste parti - sono ammesse soltanto durante le partite in cortile, un quadrato di fango e senza erba dove si giocano campionati i cui premi consistono in un piatto di pasta o in un asado.
Oggi è sabato, e mentre un detenuto aspetta una risposta dal direttore - ha chiesto il permesso per restare con il figlio di cinque anni anche qualche ora nel pomeriggio - Fausto Emiliano Fraga è felice di potere abbracciare David, suo figlio, appena dieci mesi. L'ultima volta che l'ha visto, il bambino aveva solo tre dentini. "Adesso, vede, ne ha sei". Fausto ha 27 anni e sconta una condanna a undici per svariati furti d'auto. Durante l'ultimo tentativo ha ingaggiato una sparatoria con la polizia: "Ho cominciato a trafficare con le auto che di anni ne avevo sedici. All'inizio era poco più di un gioco, ma mi sono subito reso conto che avrei potuto farci molti soldi. È stato in carcere che ho conosciuto Dio, e qui ho capito che avrei dovuto pagare per ciò che di male ho fatto".
Intanto, in un angolo del corridoio, fuori dall'ufficio di Tejeda, una coppia di innamorati si abbraccia e si bacia. Sembra il preludio di un incontro più intimo: "Dio non vuole che l'uomo sia solo, ed è per questo che ha creato la donna", ride il direttore. Ha stabilito che ogni quindici giorni i prigionieri possano avere un incontro di cinque ore con le proprie mogli o fidanzate. Un altro ottimo motivo per chiedere il trasferimento.
Attualmente nelle carceri della provincia di Buenos Aires si aggirano circa 250 pastori evangelici con un unico obiettivo in testa: fare proseliti. Un'iniziativa che anche le autorità vedono di buon occhio. E non necessariamente per afflato mistico. Secondo le statistiche il tasso di recidività nelle carceri argentine sfiora il 50 per cento, il che vuol dire che ogni 100 detenuti 45 commettono un altro crimine una volta scontata la condanna e lasciata la prigione: "Fra quelli che escono da qui, invece, la percentuale scende al 4 per cento", garantisce il direttore dell'Unità 25. "Questi uomini erano vittime della droga e dell'alcol", spiega, "e ora che non bevono e non si drogano hanno finalmente trovato la pace". Anche oggi "i fratelli" sono in preghiera a ritmo di rock. A squarciagola cantano: "Grazie a Dio!". Alla batteria c'è Héctor Nene Sánchez. Condannato per avere violentato, ucciso e sepolto nella propria casa due ragazze. E Amen.